GIORGIO GABER - POLLI D'ALLEVAMENTO

Che arrivasse anche questa recensione in fondo, era destino. Collocato tra Libertà obbligatoria e Anni affollati, tra Si può e Io se fossi Dio, Polli d'allevamento è lo spettacolo più contestato ma forse anche più interessante di tutta l'opera di Gaber. Rappresentato nella stagione teatrale 1978/1979, è il lavoro che segna un punto di svolta, nonostante la collocazione tra due opere così importanti nel panorama del cantautore milanese. Lo segna per due motivi: innanzitutto avviene il distacco dai movimenti giovanili, dal buonismo, dalla contrapposizione ferrea alla Democrazia Cristiana, ma anche per un altro motivo, tutt'altro che secondario. In Polli d'allevamento infatti come protagonista c'è la musica. La mimica di Gaber, i testi ironici e pungenti, vengono infatti a contatto con tutta una serie di basi musicali tanto adatte quanto spesso sperimentali e innovative. La mano è evidente: agli arrangiamenti ci sono infatti Franco Battiato (che di lì a poco avrebbe pubblicato L'era del cinghiale bianco, dando fine al periodo sperimentale) e Giusto Pio. Nomi d'eccezione sicuramente e il risultato è assicurato, la scheggia impazzita dell'inventiva di Battiato si "scontra" con Gaber (che fu uno dei suoi scopritori) dando luogo a due ore di spettacolo azzardato e coinvolgente. La dichiarazione di intenti è già nell'Introduzione, nei secondi finali vi è infatti un sibilo, ripreso poi nel Finale. E' qualcosa di gratuito, forse inutile, ma fa capire da dove si parte. Nell'ambientazione quasi classica di Chissà nel socialismo, appaiono infatti elementi più sperimentali, su un testo decisamente sarcastico sulle promesse del paradiso comunista. Elementi orientali appaiono in La pistola, rappresentata come emblema di potenza, perfezione e virilità. E come non citare probabilmente il capolavoro del disco: I padri miei- I padri tuoi, riflessione su generazioni a confronto con messa a fuoco dell'incolorito aspetto di quella dell'epoca, nella seconda parte l'elettronica prende la sua forma più sperimentale e rumorosa, sottolineando le parti più dure del testo di Gaber, è così anche in Gli oggetti, monologo sul consumismo. La seconda parte inizia con una risata da Situazione donna, destinata a non credere all'importanza (AHAHAH!) della famiglia. Introduce un momento poetico come Eva non è ancora nata, sguardo dolce, uno dei pochi, verso il mondo femminile. Presente anche la grandiosa Salviamo 'sto paese, canzone sull'inconsistenza delle promesse di uscita dalla crisi dell'Italia degli anni '70 e la voglia di tornare all'epoca del boom economico-consumistico di inizio anni '60. Si riflette anche e soprattutto, sul finale, delle masse con Guardatemi bene e Quando è moda è moda, pezzo finale discusso e provocatore, tanto da suscitare alcuni fischi (probabilmente dei più trinariciuti, per citare un altro fischiato). Gaber in questo spettacolo mette in gioco tutto sè stesso, le sue idee e le sue considerazioni su un periodo complesso come il 1978-79. Non ci sono apparenti soluzioni, la decadenza per il cantautore è un fiume in piena e durerà fino all'ultimo recital (Un'idiozia conquistata a fatica, del 2000). C'è qualche speranza, lo si vede dal finale dello splendido monologo Il suicidio "c'è una fine per tutto, e non è detto che sia sempre la morte".