TALKING HEADS - STOP MAKING SENSE

Raramente recensisco album live ma questa volta sono lieto di fare un'eccezione: se c'è un album che rappresenta i Talking Heads questo è Stop Making Sense, uscito per la prima volta nel 1984 e poi ristampato con la scaletta più completa nel 1999. Il gruppo di David Byrne e soci (che avranno grande aiuto in fase di produzione anche da Brian Eno, tanto per cambiare) non può essere ridotto nè ai primi album post punk, nè al suono funky che si fa largo in Fear of music o nei ritmi ossessivi di Remain in light, i Talking Heads sono sempre oltre e di più. Ci viene proprio in aiuto Stop Making Sense innanzitutto perchè non è la classica registrazione di un concerto qualunque, ma molto di più: la setlist è un climax di strumenti e suoni per un terzo del disco, per poi attestarsi su una serie di brani imperdibili. Poco pubblico, tantissimi Talking Heads (senza quell'impressione un po' freddina dei dischi) a partire dall'iniziale Psycho killer praticamente acustica, così come la successiva e classica Heaven (uno dei pochissimi momenti non frenetici, anzi). L'introduzione del basso e della chitarra funky fanno svoltare il concerto fino a Slippery people, ma è con l'ingresso portentoso delle tastiere in Burnin down in the house che la band sfoggia tutto il suo potenziale, aprendo anche a numerosi momenti strumentali. La musica dei Talking Heads è una new wave particolare, influenzatissima anche dal funky oltre che dall'elettronica, con delle percussioni molto più accentuate e ritmi anche molto veloci. Lo spettacolo è portentoso e lo si può vedere nel film (mentre nell'album non ci si aspetterebbe mai il dispendio energetico dell'esecuzione di Life during wartime, uno dei brani chiave del concerto). Spazio anche per qualcosa di diverso: What a day that was firmato da Byrne solista eseguita magistralmente in pieno stile Talking Heads, in cui c'è un visibilissimo contrasto tra la strofa (con un basso in primo piano) e il ritornello decisamente più leggero, quasi pop. Anche pezzi che sembrano innocui come This is must be the place mostrano tutte le loro potenzialità, in questo caso con l'assolo di tastiera. Scintille funky in Once in a lifetime, ma anche tanta chitarra elettrica in un crescendo che arriva al finale quasi (David Byrne mi perdonerà) da stadio, con un pubblico evidentemente in visibilio. Chiude uno dei pezzi pregiati di Remain in light: Crosseyed and painless, qui presentanto con grandissima energia e gli assoli di chitarra elettrica che dominano la scena. Byrne quasi se ne sta in disparte per lasciar il lavoro principale alle coriste, ma è solo un'impressione. Uno dei dischi da comprare assolutamente, un manifesto della new wave con uno dei gruppi più particolari e interessanti da riscoprire.